Io diro' subito, nel modo piu' semplice, che l'arte e' visione o intuizione. L'artista produce un'immagine o fantasma; e colui che gusta l'arte volge l'occhio al punto che l'artista gli ha additato, guarda per lo spiraglio che colui gli ha aperto e riproduce in se quell' immagine. Benedetto Croce, Breviario di estetica L'intervallo che va da 1000x a 100000x, fa riferimento al fattore di ingrandimento comunemente usato dai microscopi dei laboratori scientifici per osservare batteri, virus e microrganismi Le lenti del microscopio sono sostanzialmente la porta che ci permette di penetrare nel mondo di Vittorio Valente. Le opere del nostro artista, infatti, sono popolate da immagini, realizzate in silicone, che riproducono verosimilmente le forme di virus, batteri e cellule. L'uso di colori sgargianti, di forte impatto emotivo, e l'utilizzo di forme arrotondate, conferisce alle opere di Valente un aspetto fortemente e volutamente giocoso, che seduce l'osservatore e invita a stabilire un contatto di tipo tattile. L'artista ci attrae -accettiamo la caramella dallo sconosciuto- siamo spinti a toccare e cosi' rimaniamo 'contaminati'. L'interagire con l'opera d'arte ci spinge ad una riflessione ed ad una rilettura piu' profonda del lavoro di Valente; si comprende solo in un secondo momento che siamo stati ingannati, che l'aspetto giocoso non e' altro che un tranello, architettato per spingerci ad entrare nella dimensione in cui questi lavori esistono. I virus, i batteri e le cellule sono gli invisibili coinquilini della nostra realtà quotidiana, sono i nemici silenti che ci circondano; li ignoriamo, facciamo finta che non esistano, non ce ne curiamo, ma loro sono presenti. La serie di opere 'Contenitori di corpi ' e' forse il miglior paradigma di quanto detto fino ad ora: dalla trasformazione di oggetti della piu' rassicurante quotidianità, le sedie, che rimandano alla sicurezza della realtà domestica, nascono, attraverso l'utilizzo del silicone e la riproduzione delle immagini ingrandite dei microrganismi , delle opere di forte impatto emotivo, opere con cui e' doveroso entrare in contatto per compiere appieno il pensiero dell'artista. I 'Contenitori di corpi' mutano il loro significato quando interagiscono con lo spettatore, se li utilizziamo come sedie, accomodandoci sui morbidi e colorati rivestimenti di silicone, diventiamo parte dell'opera nascondendo con il nostro corpo i virus che popolano le superfici e, come si e' gia detto, contaminandoci. Al contrario, quando l'opera rimane vuota, la sua sgargiante superficie non fa altro che sottolineare il trionfo di virus e batteri e, allo tesso tempo, la sconfitta del corpo umano. Il tutto ci induce ad una riflessione sulla caducità della vita umana e sul valore taumaturgico dell' arte che sopravvive all'artista. Vittorio Valente ci apre un'altra via di interpretazione del suo lavoro, una via forse piu' sottilmente intellettuale. Gli ingrandimenti di virus e batteri assumono il valore di simboli, il microscopio diviene inevitabilmente il mezzo per cercare di interpretare questi simboli, sorta di thesaurus di una grammatica ancora sconosciuta. L'artista ci pone di fronte ad una nuova simbologia, atea e forse venata da un sottile accento neopositivista, come per suggerirci che forse, oltre i linguaggi oramai codificati, esiste un linguaggio ancestrale, fatto di forme, di segni e di immagini a cui non siamo abituati a pensare, ma che sono parte costituente di noi stessi ed elementi determinanti della nostra esistenza, di cui ignoriamo o non riusciamo ancora a cogliere il profondo significato. L'arte di Valente si interessa della materia costitutiva della realtà umana, la materia piu' profonda ed insondata, se ne occupa attraverso un percorso le cui tappe hanno toccato la destrutturazione della corporeità e la ricostruzione di essa in forme astratto artificiali, come testimoniano i 'Dermascheletri' dove la struttura ossea ed la superficie epidermica vengono sostituite dal ferro e dal silicone, il derma del futuro. Non si nasconde nella produzione del nostro artista un contatto con la fantascienza sia letteraria che cinematografica. Una lettura non tanto di stampo futuribile, quanto una reinterpretazione di un immaginario che fa parte della cultura dell'autore, come dimostrano una serie di opere intitolate 'Viaggio Allucinante', titolo desunto dall'omonimo film del 1966 diretto da Richard Fleischer, film con il quale condividono un'estetica fantastica e visionaria, anche se venata da un accento di precisa ricerca scientifica. Senza cadere nell'erronea sovralettura dell'arte di Valente, credo che anche la serialità della sua produzione, mi si conceda il termine in un'accezione non svilente, abbia dei contatti con la dicotomia 'seriale-unico' riscontrabile nell'essere umano. Vittorio Valente ci parla dell'uomo, mostrandocene pero' una parte per il tutto, un uomo nella sua drammatica realtà e nella ipotesi di una futura esistenza; un uomo piu' facilmente identificabile con la sua assenza piuttosto che con la sua presenza; l'uomo e' accennato mai trattato direttamente, ma e' sicuramente al centro della produzione dell'artista genovese, e ne e' fonte primaria di ispirazione, o meglio, di interpretazione. Come scriveva Benedetto Croce, l'artista ci indica un punto ed uno spiraglio per fare nostra la sua arte e per interrogarci, cambiando il punto di vista, sulla realtà che ci circonda. Igor Zanti luglio 2004 Galleria Spazio Minerva Via della Madonna 35/a Montescudaio (PI)
Forse uno dei titoli più citati della critica contemporanea, artistica, letteraria, cinematografica, è il famoso "Blade Runner", film che ha già compiuto i suoi primi dieci anni e pure risulta in testa alle hit parade intellettuali di vario genere. Inutile ricordare qui che il soggetto di "Blade Runner" deriva da un romanzo di Philip Dick, e che il protagonista assoluto di questa storia è il replicante, I'androide costruito a misura e somiglianza perfetta dell'essere umano, programmato per una fine piuttosto rapida, ma vero e proprio pericolo sociale perché dal suo modello ha tratto i caratteri più particolari. È insomma un perfetto parassita imitatore. Sul concetto di imitazione andrebbe credo fatta qualche riflessione ulteriore. Non soltanto I'androide rifà i modi e i comportamenti dell'uomo, non soltanto vive un'esistenza del tutto uguale a quella di chi !'ha inventato, avendo poi la capacità di elaborare un'ancor maggiore quantità di idee e concetti e prendere decisioni autonome, non soltanto non si liquefa e non perde i pezzi come il vecchio Robot dei romanzi di Asimov. Egli è fatto con tessuti del tutto simili alla carne e alla pelle: soffre il freddo e il caldo, trema e suda, scarica adrenalina quando si emoziona e secerne liquidi se è stanco ed affaticato. Assomiglia a quei divani e poltrone di ogni buon salotto borghese: in simil-pelle, ovvero in plastica. Contraffazione così ad arte che comporta un'ulteriore difficoltà di riconoscimento, quale sarà la copia, dunque, e quale l'originale? Fatto questo che alimenta la cultura del sospetto e della diffidenza: io è diverso da te, necessario farsi riconoscere. Una storia che risale almeno all'Invasione degli Ultracorpi", se non più in là ancora. Che questa suggestione riguardi un qualche modo il lavoro artistico di Vittorio Valente non è nemmeno così sicuro. Certo è invece il suo operare su) problema dell'imitazione: forma, idea, aspetto, sostanza danno informazioni su che cosa è, o dovrebbe essere, la pelle. Nella sua esistenza quotidiana Valente, astigiano residente a Genova, è analista chimico al Gaslini. Presumibilmente ha a che fare con materiali e ritrovati tecnici che non sono affatto contemplati in alcun eventuale uso d'arte. C'è però un termine "magico", una parola chiave che gli appartiene di fatto: Valente usa il silicone, ideale sostituto, in scala ulteriormente sofisticata, della simil-pelle dell'androide anni Ottanta. Con una differenza netta. L'androide era rifatto come l'uomo per integrarsi e via via subentrargli nei momenti topici, insomma per sottrargli il potere. L'uomo di oggi, invece, vuol replicarsi con materiali plastici per correggere gli eventuali "difetti di fabbricazione", per apparire bello e perfetto riempiendo vuoti ed asportando pieni. Una specie di piccola razza eletta nutrita, come ha appunto osservato Jeffrey Deitch inventore dell'artista Postumano, di interventi di chirurgia estetica, pal,estre, body shop.. e istituti di bellezza, talk show televisivi, eccetera eccetera. A leggere i giornali ci si può divertire ulteriormente. Uniformandosi a direttive internazionali anche il nostro devastatissimo Ministero della Sanità sta tentando di vietare gli interventi di "gonfiaggio" artificiale delle varie superfici corporee: pare che farsi rifare labbra e seni possa costare molto caro (spese cliniche a parte). Il silicone, esattamente come una buona sigaretta, "nuoce gravemente alla salute"! Vittorio Valente lavora con il silicone ad uso idraulico che, oltre a rattoppare, perdite varie, è assolutamente innocuo. E con il silicone inventa un inedito sistema di simil-pelle che è l'esatto contrario di ciò che il post-umano ha deciso di imporre nel costume artistico. Vi sono due gruppi distinti di opere più recenti, prodotte tra il 1991 e il 1993: i "Dermascheletri" e le "Dermastrutture". Termine chiave è dunque "Derma" - radice etimologica greca di pelle - e necessariamente gli "scheletri" avranno una architettura che rimanda a particolari anatomici - fasce muscolari e nervose - di creature animate e inanimate, mentre le "strutture" hanno un aspetto più semplice, quasi primario, spesso con la funzione di contenitore di una forma definita, una cosa imprigionata dalla sua nuova pelle, messa in un contenitore da cui sarà impossibile liberarsi. Per Valente l'utilizzo del materiale non risponde ad una semplice funzionalità fine a sé stessa. L'aggettivo "plastico" rimanda comunque sempre alle categorie dell'arte intesa come disciplina classica. Plastico è dunque I'oggetto che ha forma, che si presenta in quanto struttura conclusa ed episodio di una serie costruita sulla narrazione di una storia. L'ingresso deciso della contemporaneità tecnologica, che riguarda appunto la scelta di un materiale assai discusso nella civiltà attuale, si coniuga con una necessità precisa di "fare" rispettando modi e procedimenti propri di una certa tradizione. Ha infatti importanza decisiva l'elemento tattile: le opere di Valente sono in finta pelle umida, oleosa, artificiale; corpi puntinati da escrescenze carnose regolari come il decorso di una malattia infettiva. Sono forme, se non sculture vere e proprie, oggetti a tutto tondo a ridefinire uno spazio, caduti sulla terra come da un film di fantascienza degli anni Cinquanta. Oppure brandelli chirurgici, frammenti di operazioni, elementi di materia plastica nuda e vischiosa, tela di ragno che cattura l'illusione dell'oggetto e della realtà esistente
Non ha diritto a legittimare la propria prepotenza ed arroganza chi ancora riesce a scuotere dal torpore, a liberare da noia ed assuefazione, a motivare sentimenti forti? L'opera plastica di Vittorio Valente ammalia o indispettisce con foga o senza ritegno, esasperando ogni emozione, originando piaceri urlati e paure incontrollabili, comunque non contemplando l'indifferenza e l'oblio tra le proprie corde poetiche. Discorso formalmente anarchico e sovversivo- seppur inquadrato in una ricerca metodologicamente coerente- il lavoro dell'artista astigiano (ma genovese di adozione) subisce il fascino dell'irregolarità ed ama flirtare con la trasgressione, spettacolarizzando lo stupore piacevole o raccapricciante, la diffusa difformità (stilistica, architettonica e mentale) e la comune inquietudine che oggigiorno ci circondano e assediano. I Dermascheletri di Valente- come anche prima di essi, i Guerrieri Silenziosi e le Pause Temibili - teatralizzano e propongono in esposizione gli ingenui timori comuni nei lontani anni 60, i pulp magazine, i mitici Albi Fantascienza Mondadori, i primi fumetti serie fantasy tratti da "L'Intrepido" o "Lanciostory", la cronaca radiofonica data da Orson Welles di una invasione aliena della terra, nel mentre suggeriscono e impongono una concezione nuova circa la pelle, il tessuto connettivo, la carne. Essi duellano con l'evoluzionismo darwiniano- reimpostando au-contraire la logica della selezione naturale- e sviluppando nel ferro e nel silicone le caratteristiche peculiari alle elementari quanto affascinanti creature planctoniche. La pelle Artificiale e le metamorfosi bramate dalla biogenetica recitano - nei B-movies orditi da Valente- dialoghi e sceneggiature ove trionfano alternativamente ed incondizionatamente ora il pericolo ora il divertissement, una paura grossolana e folle oppure una gioia rumorosa e spensierata ( come accade sovente nei films scritti e diretti da Quentin Tarantino). Paura che ha l'aspetto di forza bruta pronta a colpire, a sovvertire l'ordine prestabilito facendo leva sulla propria presenza altra ed aliena; gioia che ha nella gola il sapore acre ed acerbo della plastica, che si rallegra di un rischio soltanto momentaneamente scampato. Artista effettivamente mediale, Vittorio Valente si dimostra attento alle suggestioni (cinematografiche o letterarie) di forte impatto, affascinato da una cultura popolare oggi ampiamente rivalutata. Rielabora ed interpreta gli argomenti e le situazioni oggetto di morbosa ed invadente attenzione da parte dei mezzi di comunicazione, spaziando nella sua ricerca dagli universi cartacei di Isacc Asimov ed Arthur C.Clarke alle invenzioni in celluloide di Russ Meyer e Roger Corman. La sensualità straripante e giocosa delle maggiorate di Meyer( le morbide e procaci forme di Francesca " Kitten" Natividad tornano nelle molli curve del silicone) si fonde- nei Dermavolumi- alle paure ancestrali impersonate da IT o da ultracorpi, coniugando in dette opere piacere e dolore, pulsione sensuale ed atavico timore.Immaginazione sfrenata ed erotismo discinto- tante volte rappresentati insieme sulle copertine dei mensili di Fantascienza (scrive Giuseppe Lippi "per chi ama i Robot cigolanti una ragazza seminuda inseguita da qualche due pinze su una copertina sbrindellata avrà sempre il suo fascino. E mi raccomando: i veri mostri di metallo hanno la faccia quadrata, luci rosse al posto degli occhi e denti a seghetto in bocca")- tornano a sposarsi nel lavoro di questo artista che pur introducendo soluzioni plastiche di disarmante attualità, recupera alle proprie realizzazioni riferimenti e canoni inerenti la sfera del quotidiano e del vissuto. Fissando negli occhi la realtà Valente testimonia, con loquacità lirica forte e violenta, il fascino e le incertezze peculiari al mondo ed al tempo che oggi stiamo vivendo, senza barare e senza cadere in alcuna contraddizione. A fronte delle sue 'creature' non e possibile non ricordare le parole di Roy: " Ho visto cose che voi umani non potreste nemmeno immaginare: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione; ho visto i raggi B balenare nel buio alle porte di Tannhauser. Ed ora tutti quei momenti andranno perduti per sempre come lacrime nella pioggia. Maurizio Sciaccaluga Scultori in Liguria del secondo 900, De Ferrari Editore, Giugno Luglio 1995.
Il cammino artistico di Vittorio Valente, apprezzabile per coerenza progettuale ed originalità stilistica, si colloca esemplarmente all’interno del percorso di più marcata eccellenza della scena artistica italiana contemporanea, quello meglio in grado, a mio avviso, di confrontarsi in maniera armonica, ma al tempo stesso positivamente competitiva, con il restante panorama internazionale, perché detentore di personalità e di quelle caratteristiche estetiche e linguistiche peculiari al “genius loci”nazionale. Conosco il lavoro di Vittorio fin dai primi anni ’90. Rimasi subito colpito dal suo stile atipico , dalla capacità di creare opere bidimensionali ed installazioni dal carattere fortemente innovativo, e dalla destrezza nell’adoperare materiali plastici inconsueti per la maggior parte della scena dell’epoca. Circolava un’aria non bella nell’Italia artistica di quegli anni : dopo l’entusiasmo un po’ ebbro che aveva caratterizzato l’eclettismo mediatico e metropolitano della seconda metà degli anni ’80 si era passati ad una fase di interdizione, dove il panorama si presentava invaso da massicce dosi di pittura affrettata e superficiale, pallido clone di quella spontanea e sincera voglia di figurazione di pochi anni addietro e, quanto è peggio, da un suicida incitamento del sistema artistico nei confronti di installazioni neo concettuali che si presentavano armate di una sconcertante povertà linguistica e ricalcavano pedestremente le urgenze formali degli anni ’60 e ’70 in cui l’unico carico di diversa significanza era fornito da un atteggiamento di insopportabile snobismo e supponenza intellettuale, degno al più di un’analisi sociologica, ma certamente estraneo a qualsiasi riflessione estetica degna di tal nome. Coloro non disposti ad adeguarsi a questo stato di cose, uno sparuto numero di critici e gallerie ed un nucleo fortunatamente più consistente di artisti, dovettero rassegnarsi ad intraprendere una lunga attraversata del deserto, a tutt’oggi non terminata, ma di cui fortunatamente si inizia forse a scorgere la conclusione. Al rapporto già subito di stima nei confronti di Vittorio è subentrata, dalla fine dei ’90, una positiva ed intensa collaborazione, coronata nella personale, e relativo ampio catalogo del settembre 2003 presso il Museo d’Arte Contemporanea di Villa Croce a Genova. Del testo di allora riprendo dei dati a tutt’oggi attualissimi relativi all’inquadramento storico ed all’analisi formale del lavoro di Valente, aggiornandoli alla luce di una poetica in continua e febbrile evoluzione, ed all’importante personale presso la galleria di Sabrina Raffaghello, cui è dedicato questo testo. Il lavoro di Valente riesce , al pari di pochi altri, a rappresentare un elemento di continuità rispetto alle poetiche emerse in Italia a partire dalla metà degli anni’80, data delle sue prime apparizioni pubbliche, per poi proseguire nel decennio successivo fino ai giorni nostri, che costituiscono, al momento, ancora un episodio collegato al più recente passato. Nelle opere dell’artista genovese sono rintracciabili tracce dello stile degli anni ’80, in particolare rispetto all’esigenza di rinnovamento del linguaggio della scultura e dell’installazione tramite l’impiego dei nuovi materiali plastici che fu tipico, ad esempio, delle prove degli aderenti al “Nuovo futurismo”, in particolare Plumcake e Gianantonio Abate, e di vari altri autori. Ma, di pari, il lavoro di Valente, ulteriormente raffinatosi negli anni’90, interpreta al meglio certe suggestioni e fascinazioni del confronto tra l’arte, le nuove frontiere biologiche e scientifiche e la percezione del proprio corpo e dell’intera gamma delle facoltà sensoriali a contatto con una realtà sempre più frammentata e virtuale, ben sintetizzate da una mostra che nei primi anni di quel decennio conobbe una vasta eco, anche in virtù del forte apparato promozionale e mediatico di cui si avvalse, la celebre “Post Human”, curata da Jeffrey Deitch, effettivamente uno dei non molti eventi in grado di sintetizzare efficacemente un clima di mutamento stilistico internazionale corredandolo di esempi validi ed indicativi. Peccato poi che, particolarmente in Italia, il sistema dell’arte, in particolare nei suoi gangli informativi, abbia teso sfacciatamente ad incoraggiare la proliferazione di materiale debole ed epigono, frenando a lungo l’apparire sulla scena di quegli artisti, e Valente è certamente tra questi, in grado di porsi meglio e naturalmente in sintonia con quella tendenza grazie ad un lavoro di assoluta originalità e pregnanza formale. Un lavoro che si colloca nella scia del grande mutamento stilistico emerso, a livello globale ma in Italia con caratteristiche senz’altro singolari, a partire dalla metà degli anni’70, una volta spentasi, dopo aver raggiunto l’apice con la stagione Concettuale, la carica propulsiva della rivoluzione linguistica novecentesca. Da quella data si susseguono due fasi, una temporalmente ristretta fino ai primi anni’80, dove la predominante è costituita dal ritorno in forze dei valori della manualità, pittorici e decorativi, espressionisti ed aniconici, a lungo negati dal rigore mentale ed analitico degli anni precedenti ed allora di nuovo, prepotentemente alla ribalta, la seconda molto più estesa, ad occupare la scena dalla metà di quel decennio fino ai giorni nostri, pur in presenza di numerose varianti. Il primo lasso, prolungatosi fino alla parte iniziale degli anni’90, è caratterizzato, da un lato, dalla citazione in serie delle esperienze caratterizzanti il corso delle avanguardie novecentesche, dall’altro da un’attenzione ossessivamente rivolta verso gli scenari dell’immaginario metropolitano, dall’infatuazione verso le nuove tecnologie, ancora “in nuce” se si pensa alla vorticosa accelerazione dei nostri giorni, ed all’epoca fonte di accesa curiosità, dalla centralità riposta nuovamente nei valori dell’individuo, anche in chiave di competizione sociale, dopo la sbornia ideologica e collettivista degli anni’70. Il tutto condito dalla vocazione all’interdisciplinarietà ed alla commistione con varie altre discipline creative, musica, fumetto e teatro soprattutto. Gli anni ’90, fino alla fase attuale, costituiscono, a mio parere, il proseguimento di quelle esperienze con l’aggiunta di alcune, significative mutazioni. Il dato che balza prepotente agli occhi sovrastando qualsiasi altra considerazione, è costituito dall’enorme incremento della produzione artistica, frutto in primo luogo di una più ampia disinibizione nell’esternare la propria potenzialità creativa, per conforto vocazionale ma talvolta addirittura terapeutico, retaggio positivo dei movimenti di liberazione dai vincoli e dalle costrizioni della società borghese che hanno scosso l’occidente a partire dagli anni’50, ma anche fortemente debitore nei confronti di una struttura sociale sempre più marcatamente postindustriale, in cui l’immaterialità virtuale conseguenza della presenza invasiva delle nuove tecnologie ha allargato gli orizzonti dell’arte in termini di possibilità formali, agevolando inoltre la velocità di realizzazione delle opere, di cui si è altresì troppo spesso abusato, stringendola al contempo d’assedio, saccheggiando a piene mani i valori racchiusi nel suo sacro recinto, per spalmarli uniformemente nei siti della moda, della pubblicità, del design, causando, in molti casi, una salutare reazione di difesa, con gli artisti pronti a raccogliere e manipolare i copiosi scarti prodotti da una società sovrabbondante, opulenta, corrosa dalla cafoneria e dal cattivo gusto. Da un punto di vista stilistico e dei contenuti l’arte dell’ultimo decennio ha visto prevalere i valori di un eclettismo che è spaziato da un nuovo concettuale, spesso caratterizzato da una rinnovata attenzione alle istanze politiche e sociali ma capace anche di spingersi a ritroso nei meandri dell’introspezione psicologica, dalla persistenza della pittura, in bilico tra dimensione realistica ed allegorica, che, in termini di competizione d’immagini, ha dovuto affrontare l’arduo scontro, talvolta oppositivo ma in vari casi incline all’alleanza, con la fotografia ed il video. Il problema più scottante, per coloro i quali si sono posti nella condizione di elementi terzi ed arbitri rispetto a questa sovrabbondanza produttiva, è stato quello di governare una scena sempre più sfuggente e mutante, onere al quale, in realtà, molti hanno preferito abdicare optando per la tutto sommato comoda attività di curatore, laddove con questa qualifica si intende un compilatore consenziente di liste redatte avvalendosi esclusivamente dell’ausilio di gallerie e collezionisti, come se non fosse possibile ed opportuno operare una mediazione tra questo ormai inevitabile esercizio, ed il mantenimento di quella fondamentale capacità di scelta e di giudizio che è implicita alla natura ed alla funzione della critica d’arte. Ma qual è il ruolo occupato da Vittorio Valente all’interno di questo scenario quanto mai variegato e spesso effimero? Ho già prima introdotto alcuni fondamentali elementi di giudizio inquadrando il lavoro dell’artista genovese come simbolico “trait d’union” tra lo stile, simile ma non del tutto omologo, di due successivi decenni. Già a partire dalla seconda metà degli anni’80, infatti, Valente appare alla ribalta con la serie dei “guerrieri”, contenente la summa della sua poetica, in seguito resasi ancora più articolata e stilisticamente duttile. Si manifesta la costante dell’uso di innovativi materiali plastici e sintetici, particolarmente il silicone, che ben si adatta ad essere manipolato in mille modi e maniere, assumendo le sembianze di una vera e propria “seconda pelle”. Valente, se il confronto non appare irriguardoso, e non lo è se si considerano le cose attestandole sulla loro scala di valori temporale può, per certi aspetti, essere considerato una sorta di Kandinsky postmoderno. Infatti, se il geniale avanguardista russo ha il grande merito di avere per primo, e con decisione, squarciato il “velo di Maya” sulle pulsazioni vitali degli organismi cellulari mostrandoci una realtà inedita, sublimata da un’osservazione condotta come dal vetrino di un microscopio, rivelandoci l’intensità ed il dinamismo dell’universo biomorfico, Valente, quasi un secolo dopo, parte dalla sua attività di analista chimico per comunicarci l’illusoria ludicità delle cellule impazzite, dei virus che incombono minacciosi ad insidiare esistenze che ci sembrano al riparo da rischi, tenute sotto controllo da una scienza sempre più evoluta, da una tecnologia avvolgente e soffice. Kandisky fu indotto, dal clima culturale dei tempi, a circoscrivere le sue intense ed affastellate composizioni dentro il confine bidimensionale, Valente invece permette alle sue amebe, ai virus, di liberarsi da queste pastoie ed invadere, apparentemente gai ed innocui, in realtà sottilmente minacciosi, l’ambiente circostante moltiplicandosi esponenzialmente. L’orizzonte di Valente non è biomorfico, è diretto verso il sito della manipolazione genetica, delle nuove frontiere della scienza che prefigurano un futuro già per molti aspetti presente dove l’uomo assume le sembianze di un androide dalle parti intercambiabili, e si trova nella condizione del guerriero costretto senza posa a difendersi da micidiali microrganismi da egli stessi irresponsabilmente germinati nel delirio della mania di grandezza, del progresso illimitato. Le opere di Valente già assumono, negli anni’80, quell’aspetto formalmente irreprensibile che perfettamente si integra nell’ambiente circostante, tale da sfidare le arti applicate, particolarmente il design, sul loro stesso terreno, invertendo i termini tradizionali del rapporto, restituendo all’arte il molto che negli ultimi anni le è stato sottratto dai limitrofi territori dell’oggettualismo, dell’immagine e della comunicazione. Quel periodo segna, in Italia e fuori, un ritorno di valori astratto-geometrici, adeguati alla nuova estetica telematica, ai “pixel” della “computer graphic”, che aggiornano il linguaggio guida dell’avanguardia novecentesca, scongiurando il rischio di una citazione passiva ed inerte. Di pari assistiamo ad una riformulazione del linguaggio della scultura e dell’installazione, con una produzione che oscilla tra forme asciutte e minimali ed altre tendenti ad una più evidente ridondanza , con l’uso integrato delle tecnologie e con l’impiego di nuovi materiali plastici e sintetici. Valente si pone esemplarmente al crocevia ideale di queste impostazioni e le osservazioni sulla nuova dimensione “post umana” dell’esistenza condurranno il suo lavoro a sintonizzarsi con gli umori più diffusi ed interessanti del decennio successivo. Decennio che vede l’artista genovese passare attraverso tre fasi tra loro intimamente collegate, predominanti stilistiche per brevi periodi abbandonate e poi riprese, modificate, aggiornate alla luce di nuove intuizioni. La prima, datata primi anni’90, delle “cellule”, strettamente abbinata a quella immediatamente successiva dei “derma scheletri”. Nella prima assistiamo ad un predominanza bidimensionale, mentre la seconda indulge efficacemente ad un originale costruttivismo, con le superfici istoriate di silicone montate su basi metalliche, una pelle artificiale che riveste la sua struttura ossea, dando vita ad a assemblaggi che simulano parodisticamente un espanso monumentalismo. L’ultimo periodo, quello dei “virus”, è certamente connotato da una felice, quasi frenetica vena creativa, che ha dotato di nuovo propellente la già solida carriera dell’artista. I “virus” testimoniano in maniera evidente l’interesse di Valente per la microbiologia, per il fitto reticolo amebico che giace racchiuso nelle forme organiche, apparentemente silente ma pronto a colpire con effetti devastanti. I microbi e batteri si presentano colorati a tinte squillanti come effettivamente appaiono in natura, seppure in presenza di un certo surplus decorativo, ad enfatizzare l’effetto ammaliante di queste creature insidiose, gradevoli all’aspetto come tutti i grandi tentatori. Nelle ultime installazioni Valente preme sull’acceleratore dell’enfasi compositiva, creando assemblaggi talvolta di dimensioni imponenti, più spesso costellando l’ambiente di centinaia di piccole creature, tondeggianti e soffici al tatto per effetto della superficie siliconata, sorta di gommosi gadget per l’infanzia, simili a quelli confezionati nelle confezioni di merende e biscotti destinati al pubblico infantile, o all’opposto, in taluni casi volutamente vicine all’oggettistica innocuamente perversa dei pornoshop. Così operando, l’artista eleva i simboli del trash, del cattivo gusto imperante nei sottoscala della società contemporanea, a simulacri di una nuova estetica,riuscendo a decontestualizzarli con abilità e scaltrezza formale. Bisogna tener presente come spesso questi oggetti, all’apparenza innocui e giocosi, celino concrete insidie al loro interno, come aghi di siringhe e lamette, sebbene confezionate in modo da non costituire una minaccia per il fruitore inconsapevole ed ammaliato dalla veemenza totalizzante dell’impatto visivo. Uno dei più acuti teorici italiani della contemporaneità, Mario Perniola, in suo testo del 2000 intitolato “L’arte e la sua ombra”, a tutt’oggi del tutto attuale, come confermato dallo studioso medesimo in una serie di interventi recenti, individua due tendenze fondamentali all’interno dell’esperienza artistica occidentale : una finalizzata ad un risultato di catarsi, l’altra tendente a suscitare nel fruitore un alto livello di coinvolgimento emotivo, tale da condurlo in uno stato di “choc”. In questo caso si evidenzia un fenomeno opposto, ma per molti aspetti speculare al conio, nel Settecento, del concetto estetico di “gusto”, poiché l’arte contemporanea, in molte delle sue manifestazioni, si connoterebbe, viceversa, per la ricerca di un’estetica del “disgusto”, ottenuta ponendoci a contatto con le categorie del disfacimento organico e della morte. Ma la realtà del disgustoso è sostanzialmente un “surplus” di vita, con quest’ultima che deborda dal suo abituale alveo e si estende ad abbracciare e contaminare tutto l’esistente. Caratteristica di Valente, e dei migliori artisti italiani degli ultimi anni, è il sapersi collocare sapientemente in bilico tra queste due opzioni : da un lato porre in evidenza il reale nella sua disarmante nudità, nel suo sublime e tragico splendore, dall’altro neutralizzare gli effetti di una visione troppo diretta con la mediazione della pratica tradizionale dell’arte, con gli strumenti simbolici offerti, ad esempio, dalla decorazione che, nel caso di Valente, camuffa l’oggetto fino a farlo quasi scomparire nel flusso della comunicazione, nel suo caso intesa come complicità con l’universo delle arti applicate. In questa installazione Valente pone in essere una ulteriore tappa del suo vitalistico cammino di artista. Il corpo umano presente nella sua tangibilità di massa cellulare, ma assente come concreta presenza fisica, dopo la recente personale alla Fusion Art in cui il riferimento era quello di cellule virali dall’aspetto innocuo e leggiadro di fiori, è rappresentato in questa occasione con la modalità oggettuale del contenitore, contenitori cavi fittamente decorati con le consuete e sempre spiazzanti decorazioni istologiche, da cui balenano elementi zoomorfi : delicate lumachine la cui imprevista presenza sottende la volontà, in Valente sempre viva, di sorprendere e disorientare lo spettatore, ponendolo al centro di una composizione in cui il punto di vista non è mai univoco e muta di continuo, costringendolo ad una visione a 360°. Completa l’insieme, sempre in omaggio al concetto di contenitore ed alla presenza/assenza del corpo umano, una serie di ‘sedie” realizzata con la tradizionale tecnica cifra inconfondibile dello stile di Valente, in cui con più evidenza l’artista pone la sua sfida all’interno della comunicazione. Edoardo Di Mauro, giugno 2005.